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La ricerca: meglio quella di base o quella applicata?

di Willy Guasti

 

“Paleoarte” è una parola strana. Non è chiaro nemmeno agli specialisti che cosa sia, vista la confusione che c’è a volte: di base potremmo definirla come la ricostruzione accurata della vita preistorica – ma è solo un tentativo di rendere ordinato un terreno piuttosto impervio, e che in realtà ha le sue radici molto in profondità, storicamente parlando. Fu nel XIX secolo che si iniziò a prendere davvero sul serio la paleontologia, diventando testimoni di alcune delle scoperte più incredibili mai fatte dalla nostra specie. In passato c’erano animali che oggi non ci sono più e che erano decisamente diversi, ne sono un esempio alcuni dei protagonisti delle prime opere paleoartistiche in assoluto: nel 1800 furono inviati a Cuvier – considerato il padre della paleontologia dei vertebrati e dell’anatomia comparata - due schizzi di quella strana bestia che oggi è nota come pterodattilo, realizzati da Jean Hermann e ritenuti perduti fino al 2004. Non molto tempo dopo la paleoarte iniziò ad essere commercializzata grazie ad Henry de la Beche, che illustrò “Duria antiquor”, un acquerello datato al 1830 che rappresentava il Dorset nel Giurassico, di norma venduto agli accademici affinché lo usassero nelle loro lezioni. Si tratta della prima opera paleoartistica in vendita, nonché della prima ricostruzione in cui gli organismi fossili ricostruiti in vivo – in questo caso plesiosauri, ittiosauri e il già citato pterodattilo - erano inquadrati nel loro contesto paleoambientale. La paleoarte è una cristallizzazione del sapere scientifico di un certo periodo storico (quello in cui viene realizzata l’opera), poiché la paleontologia è una scienza che corre veloce. Un nuovo fossile, o una nuova tecnica che permette di studiare meglio quelli già noti, possono rivoluzionare da un giorno all’altro la concezione che la nostra specie ha di quelle estinte, aiutandoci ad avvicinarci sempre di più a quello che era l’effettivo aspetto di una creatura estinta.

 

 

Il dinosauro noto come Iguanodonte ne è una prova: siamo passati dal rappresentarlo come un’iguana oversized (lo schizzo in cui è concepito così è del suo scopritore, Gideon Mantell, ed è probabilmente il primo tentativo di ricostruire un dinosauro noto alla scienza, del 1833), poi come un rettile pachidermico con arti colonnari e dotato di corno (come si vede ancora oggi nelle statue del Crystal Palace), poi come un bipede con una posa da canguro e il corno messo al posto giusto – ovvero, sul pollice – fino alla “versione odierna”, in cui è raffigurato di norma quadrupede, con una disposizione dei tessuti molli maggiormente verosimile ed un aspetto della pelle più corretto. Un altro esempio è quello dei molti dinosauri che adesso vengono rappresentato coperti di abbondante piumaggio. E questo grazie alla scoperta di fossili più completi e di studi più approfonditi. Sebbene i mezzi “tradizionali” della paleoarte siano sempre stati la pittura e la scultura, oggi il tipo di pittura usata da molti paleoartisti e paleoartiste è quella digitale; e lo stesso vale per la scultura. Grazie alla scultura 3D i dinosauri e gli altri membri del serraglio preistorico possono anche acquisire vita, finendo per essere animati e inseriti un habitat che ricrea fedelmente quello in cui si suppone vivessero, rendendoli vivi ancora una volta. La paleoarte è un grande esercizio di immaginazione, poiché per definizione i fossili nascondono tante informazioni, ed è necessario cercare di “riempire i buchi”; ma è un’immaginazione coi piedi per terra, in cui ogni scelta è al servizio della verosimiglianza. Ed è proprio bella per questo.


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