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La ricerca: meglio quella di base o quella applicata?

di Agnese Collino

 

Si fa presto a dire LA ricerca. In realtà di ricerca ne esistono almeno due tipi diversi: quella di base e quella applicata. La prima punta a scoprire i meccanismi che regolano il mondo che ci circonda, mentre la seconda cerca di sfruttare le conoscenze accumulate grazie alla prima per ottenere un vantaggio pratico.
Perché è importante saperlo? Perché purtroppo ancora oggi questa distinzione non è così chiara, e tantomeno è chiaro che nessuna delle due può fare a meno dell’altra: il rischio è quello di fare errori madornali.

Un esempio di cosa può succedere se si persegue la ricerca di base senza tenere in mente quella applicata, e viceversa, arriva dalla storia della poliomielite, su cui era incentrato l’appuntamento del 17 giugno del pre-festival di BergamoScienza.

Uno dei primi grandi virologi che vi si è dedicato fu Simon Flexner, direttore di uno dei centri di ricerca statunitensi più prestigiosi dell’epoca: il Rockefeller Institute di New York. Come racconto nel mio recente libro, “La malattia da 10 centesimi. Storia della polio e di come ha cambiato la nostra società” (Codice edizioni), «Flexner rappresentava il prototipo dell’uomo di scienza sempre in laboratorio: completamente immerso nella ricerca dei meccanismi funzionali del corpo e dei germi e scarsamente interessato alla trasposizione in ambito clinico, convinto che le risposte alle tante domande sulle malattie sarebbero emerse dal laboratorio più che dal letto del paziente».
Il lavoro di Flexner fu preziosissimo. Confermò definitivamente che la polio era causata da un virus (e non ad esempio da un batterio): un’affermazione che nel 1909 non era così facile da fare, perché ancora non si sapeva neanche cosa esattamente fosse un virus, dal momento che era ancora impossibile osservarli.

Non solo: Flexner dimostrò che nel sangue di chi era sopravvissuto alla polio era presente una “sostanza germicida” in grado di contrastare quel virus: si trattava degli anticorpi. Una scoperta che apriva la possibilità di verificare se una persona avesse avuto la polio tramite test sierologico, e forse addirittura di proteggere i pazienti tramite sieroterapia.

E tuttavia Flexner fece un errore madornale: dichiarò che, stando ai suoi dati, la polio era una malattia a trasmissione respiratoria. Questo perché aveva utilizzato, nei suoi esperimenti, uno dei pochissimi modelli animali che non era in grado di contrarre la polio per via orale – come naturalmente avviene -, il macaco rhesus.

Gli errori possono capitare a tutti, soprattutto in un momento storico in cui i mezzi a disposizione della ricerca erano estremamente limitati, ma Flexner perseverò in questo errore proprio perché trascurò le evidenze che arrivavano da chi si occupava di ricerca applicata (in questo caso, di ricerca clinica): i medici avevano infatti notato nei pazienti chiari sintomi gastrointestinali, e qualcuno aveva anche ritrovato la presenza del virus nell’intestino.

 

 

Snobbando queste evidenze e perseguendo la sua teoria, Flexner contribuì a depistare la ricerca sulla polio di circa vent’anni: essendo lui uno dei padri della virologia dell’epoca, era molto difficile metterne in discussione le convinzioni, e nessuno osò farlo per molti anni.

 

Ma la storia della polio è così incredibile che portò con sé anche un esempio opposto a quello di Flexner.

Paul de Kruif era microbiologo e segretario dell’organo che decideva come allocare gli investimenti sulla ricerca per la polio da parte della più importante charity dell’epoca sul tema. Come racconto nel libro, de Kruif «non perdeva occasione per premere per il finanziamento di progetti estremamente “pratici” riguardanti la messa a punto di metodi per prevenire o curare la malattia, sottovalutando lo stato ancora estremamente preliminare delle conoscenze disponibili sulla natura del virus».

Nel 1934 de Kruif spinse l’organizzazione di cui faceva parte a finanziare la sperimentazione di alcuni spray nasali a base di acidi che, stando all’ipotesi errata di Flexner, avrebbero dovuto bloccare l’ingresso nel corpo del virus. Inutile dire che questi spray non solo non servirono a nulla, ma rovinarono definitivamente l’olfatto di alcuni degli sfortunati bambini che parteciparono all’esperimento.

Non contento, nel 1935 de Kruif fece inoltre finanziare la sperimentazione, da parte di due gruppi di ricerca indipendenti, di due diversi tipi di vaccino. Per quanto tutti attendessero con ansia uno strumento per proteggersi dalla polio, i tempi erano ancora estremamente immaturi per puntare già a un vaccino: non si sapeva ancora come il virus entrasse nel corpo e che tessuti infettasse, né come facesse a danneggiare i muscoli portando talvolta a paralisi di interi arti o di tutto il corpo; non si sapeva infine neanche che in realtà di virus della polio non ce n’era uno solo, ma ben tre (e un vaccino efficace avrebbe dovuto proteggere contro tutti loro).

I vaccini testati per decisione di de Kruif non funzionarono, e in alcuni casi si sospettò che avessero anche causato qualche caso di polio. La sperimentazione venne immediatamente interrotta: l’intera comunità scientifica fu talmente scioccata da questo fiasco che nessuno più, per quindici anni, tentò di mettere a punto un nuovo vaccino. Era tempo di accumulare le informazioni necessarie per comprendere per bene il virus, prima di passare all’attacco.

Una storia drammatica, ma molto istruttiva. La ricerca è importante, tutta: non è un vezzo, ma un modo per tutelare il nostro sistema di conoscenze e quello che con esse possiamo fare.

Così lo sapete :)

 


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